Produco poesia, una merce inconsumabile
Pier Paolo Pasolini
Lei ha scritto: "Sul piano esistenziale io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche mi porta a una forma di anarchia apocalittica". Che mondo sogna?
Per un certo tempo, da ragazzo, ho creduto nella rivoluzione come ci credono i ragazzi di adesso. Adesso comincio a crederci un po’ meno. Sono, in questo momento, apocalittico. Vedo di fronte a me un mondo doloroso, sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro.
Mi pare che lei non creda più ai partiti.
No. Se lei mi dice che non credo più ai partiti mi dà del qualunquista, invece io non sono qualunquista. Tendo più verso una forma anarchica che verso una scelta ideologica di qualche partito, ma non è che non creda ai partiti.
Perché lei sostiene che la borghesia sta trionfando?
La borghesia sta trionfando in quanto la società neocapitalistica è la vera rivoluzione della borghesia. La civiltà dei consumi è la vera rivoluzione della borghesia. E non vedo altre alternative, perché anche nel mondo sovietico, in realtà, la caratteristica dell’uomo non è tanto quella di aver fatto la rivoluzione e di viverla, ma quella di essere un consumista. La rivoluzione industriale livella tutto il mondo.
Lei si batte contro l’ipocrisia, sempre. Quali sono i tabù che lei distruggerebbe: le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alle realtà più crude, la mancanza di sincerità nei rapporti sociali?
Mah, questo l’ho detto fino a dieci anni fa. Adesso non dico più queste cose perché non ci credo. La parola "speranza" è cancellata dal mio vocabolario. Quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più.
Lei non ha speranze?
No.
Questa società che lei non ama in fondo le ha dato il successo, la notorietà…
Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo. Può esaltare, al momento, può dare delle piccole soddisfazioni a certe vanità, ma in realtà, appena ottenuto, si capisce che è una cosa brutta. Per esempio, il fatto di aver trovato i miei amici qui, alla televisione, non è bello. Per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video, e a ricostruire qualcosa di reale e di sincero; ma come posizione è brutta, è falsa.
Perché? Che cosa ci trova di così anormale?
Perché la televisione è un medium di massa, che non può che alienarci.
Ma oltre ai formaggini e al resto, questo mezzo porta in casa adesso anche le sue parole. Noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione.
No, non è vero.
Sì, è vero. Lei può dire tutto quello che vuole.
No, non posso dire tutto quello che voglio.
Lo dica.
No, non potrei, perché sarei accusato di vilipendio dal codice fascista italiano. In realtà non posso dire tutto. E poi, oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi spettatori, io stesso non vorrei dire certe cose. Ma a parte questo, è il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.
Io penso che in certi casi sia anche un rapporto alla pari: perché non potrebbe esserlo?
Alcuni spettatori, per privilegio sociale, possono esserci culturalmente pari... Ma in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più sincere. L’insieme della "cosa vista" sul video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene sempre data come una cattedra. Il parlare dal video è sempre parlare ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità.
Lei è stato, molti anni fa, per Ragazzi di vita, uno dei primi scrittori italiani chiamati a comparire in tribunale sotto l’accusa di oscenità: a distanza di tempo, come giudica certi scrittori erotici di oggi e questo dilagare dell’erotismo nel cinema, nelle librerie e nelle edicole?
Mah, per me l’erotismo nella vita è una cosa bellissima, e anche nell’arte: è un elemento che ha diritto di cittadinanza in un’opera come qualsiasi altro. L’importante è che non sia volgare; ma per volgarità non intendo quel che si intende generalmente, ma una disposizione razzistica nell’osservare l’oggetto dell’eros. Ad esempio, la donna nei film o nei fumetti erotici è vista razzisticamente come un essere inferiore, quindi è vista volgarmente. Allora, in questo caso, l’eros è puramente una cosa commerciale, volgare.
Come mai un marxista come lei trae tanto spesso ispirazione dai soggetti che escono dal Vangelo o dalle testimonianze dei seguaci di Cristo?
Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico: tratto le cose un po’ come miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così – non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere.
Il Vangelo la consola?
Mah, non cerco consolazioni. Cerco umanamente, ogni tanto, qualche piccola gioia, qualche piccola soddisfazione, ma le consolazioni sono sempre retoriche, insincere, irreali… Lei dice il Vangelo di Cristo? No, in questo caso escludo totalmente la parola "consolazione": per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero che non consola: che riempie, che integra, che rigenera… ma la consolazione, che me ne faccio della consolazione? "Consolazione" è una parola come "speranza".
Secondo lei gli intellettuali italiani scendono a troppi compromessi: facciamo dei nomi, citiamo dei casi…
Il compromesso si può riassumere in un punto solo: quello di accettare in modo acritico – perché se fosse critico si potrebbe anche ammettere, anzi credo sarebbe inevitabile – l’integrazione.
Non l’accetta anche lei?
Sì, ma in modo critico (come vede, mi ero premunito). Cioè, certo non posso non accettarla: devo essere un consumista per forza, perché anche io mi devo vestire, devo vivere; non soltanto, devo scrivere o fare dei film e quindi devo avere degli editori, dei produttori…
Quindi anche lei produce per il consumo.
La mia produzione consiste nel criticare la società che in un certo senso mi consente, almeno per ora, di produrre in qualche modo.
La società ha sempre tremendamente amato chi produceva dicendo di non amarla.
Sì, è vero: può darsi che le signore della buona borghesia amino, in un certo senso, essere colpite. La società cerca di assimilare, di integrare, certo: è un’operazione che deve fare per difendersi. Però non sempre ci riesce, a volte ci sono delle operazioni di rigetto. Tanto più poi che non possiamo parlare di poesia come di merce: io produco, ma produco una merce che in realtà è inconsumabile, e quindi c’è un rapporto strano tra me e i consumatori. Immagini che a un certo punto, in Lombardia, arrivi uno che inventa un certo tipo di scarpe che non si consumeranno mai più, e che un industriale milanese costruisca queste scarpe: pensi alla rivoluzione che succederebbe nella Valle Padana, almeno nel settore dei calzaturifici. Io produco una merce, la poesia, che è inconsumabile: morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata.